Adelante Venezuela!

Le forze del socialismo e della trasformazione vincono ancora in Venezuela. Seppur con uno stretto margine, gli elettori hanno confermato i pronostici della vigilia che davano favorito Nicolás Maduro, il candidato socialista indicato da Hugo Chávez come presidente, contro l’oppositore Henrique Capriles, governatore dello Stato di Miranda. A Maduro è andato il 50,66 % dei voti, mentre Capriles si è dovuto accontentare del 49,07% ottenuto con l’appoggio di una variopinta “Mesa de Unidad democratica”. Una vittoria di qualche migliaio di voti per il candidato del Gran Polo Patriottico, formato dal Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV), dal Partido Comunista de Venezuela (PCV) e da altre formazioni della sinistra politica e sociale.
Come si ricorderà, le elezioni presidenziali dello scorso 7 ottobre avevano visto prevalere ampiamente il Comandante Chávez (55%) sullo stesso Capriles (44%). L’astensione è cresciuta di un punto, arrivando al 20,16% dei quasi 19 milioni di aventi diritto (ad ottobre era stata del 19,06 %).
Dopo aver atteso i risultati nel “Cuartel de la montagna”, dove riposano i resti del Comandante Chavez, un Maduro molto serio ha annunciato la vittoria alle prime ore dell’alba. E in un alba di undici anni fa, il Presidente Chavez era riscattato dalle mani della destra golpista grazie alle forze armate lealiste ed alla straordinaria mobilitazione del suo popolo. In queste ore alcuni dirigenti chavisti parlano della necessità di una profonda autocritica. E mentre scriviamo la destra non ha ancora riconosciuto il risultato elettorale e chiede il riconteggio dei voti.
Certamente Nicolás Maduro, l’ex-sindacalista ed autista di bus, partiva in vantaggio: dalla sua parte l’onda espansiva dei risultati in conquiste sociali e dell’immagine di Chávez, oltre alle due recenti vittorie nelle presidenziali e nelle regionali (20 su 23). Dal 1998, su 24 scadenze elettorali di questi anni di proceso rivoluzionario venezuelano, ben 23 sono state vinte dai candidati e dalle idee di cambiamento immedesimate nella figura di Chávez.
Dal 1998, con le elezioni di ieri il processo bolivariano si è sottoposto ad un totale di 6 referendum, 3 elezioni presidenziali, 3 per il rinnovo del parlamento, 3 regionali, 3 municipali e 3 per il rinnovo dei sindaci (http://www.cne.gov.ve/web/index.ph). Decisamente una strana “dittatura” che si sottopone così spesso al giudizio del suo popolo.
Dal 5 marzo, giorno della scomparsa di Chávez, i toni della campagna elettorale erano stati duri e senza esclusioni di colpi da entrambe le parti. Ci si era messo anche l’intervento a gamba tesa del Dipartimento di Stato nord-americano, che ha messo in dubbio la trasparenza del processo elettorale venezuelano. La dichiarazione di Roberta Jacobson, incaricata per l’America Latina, era stata respinta al mittente dal Parlamento di Caracas come una ingerenza «miserabile». Viceversa l’ex-Presidente democratico Jimmy Carter aveva definito le elezioni in Venezuela come «le più trasparenti del mondo».
E nei giorni scorsi sia Maduro che il ministro degli esteri Elías Jaua avevano denunciato con nomi e cognomi l’infiltrazione di mercenari da El Salvador e paramilitari di altri paesi per realizzare attentati e provocazioni. Una cospirazione scoperta grazie a intercettazioni telefoniche ed un lungo lavoro di intelligence. Oltre a 17 persone arrestate con «le mani nel sacco» cha stavano organizzando il sabotaggio della rete elettrica, altre sono state trovate in possesso di armi ed esplosivo non in dotazione alle forze armate venezuelane e di provenienza staunitense. Il Presidente salvadoregno Mauricio Funes ha ordinato un’inchiesta.
La destra, insomma, non ha rinunciato alla sua “agenda occulta”, combinando diverse forme di lotta politica, quella legale e quella violenta. E c’è da scommettere che sarà così anche in futuro. Durante la sua paradossale campagna Henrique Capriles ha provato di tutto: prima si è dichiarato ammiratore dell’ex presidente brasiliano Lula (che si è affrettato a mandare un video-messaggio di appoggio a Maduro). Poi ha promesso di mantenere le “misiones” sociali bolivariane in caso di vittoria. Forse il clou è stata la sua promessa di dare la nazionalità ai medici cubani delle “misiones” di salute. Peccato che lo stesso Capriles era stato in prima fila nel violento assalto all’ambasciata cubana a Caracas durante il tentativo di colpo di Stato anti-Chávez del 2002. Infine era arrivato a chiamare il suo comando di campagna con il nome del “libertador” Simon Bolivar. Ma a metà della campagna aveva cambiato strategia, abbandonando i toni conciliatori e scommettendo sulla polarizzazione del Paese. Una scelta che ha pagato e che lo ha portato a un passo dalla vittoria elettorale dell’opposizione.
Oggi Maduro ha davanti a sè la sfida del governo e dell’approfondimento delle trasformazioni sociali. Con una eredità politica di Chávez da far tremare i polsi. Il programma elettorale con cui Maduro ha vinto è lo stesso programma presentato da Chávez nelle scorse elezioni, il Plan Patria 2013-2019. E non c’è dubbio che le due proposte di Paese erano e sono antagoniste.
Da una parte la sfida della costruzione del socialismo bolivariano in un Paese che vuole essere indipendente con piena sovranità popolare. Dall’altra il dominio delle grandi potenze ed il loro capitalismo selvaggio.
Da un lato quella dello scomparso Presidente Chávez di costruire un ordine multipolare sullo scenario internazionale, un’integrazione continentale autonoma dagli Stati Uniti basata sulla solidarietà e sulla complementarietà, il controllo delle risorse naturali, e la distribuzione egualitaria delle ricchezze attraverso la rifondazione dello Stato, la priorità dei bisogni delle grandi masse escluse storicamente. Una proposta conosciuta come “socialismo del XXI° secolo”.
Dall’altro il tentativo delle multinazionali dell’energia che cercano di riprendere il controllo delle risorse petrolifere, gli imprenditori venezuelani che per decenni si sono ripartiti le ricchezze del Paese ed i partiti tradizionali sconfitti dopo 40 anni di controllo egemonico. E’ indubbio però che la proposta dell’opposizione ha avuto appoggio anche in settori popolari.
Dopo la scomparsa di Chávez, i laboratori mediatici della destra internazionale hanno lavorato per favorire e presentare la versione della divisione interna alle file chaviste, in particolare quella tra Maduro e Diosdado Cabello, presidente del Parlamento. E in queste ore a Caracas la guerra mediatica si è concentrata su internet e nelle cosiddette reti sociali. Come segno dei tempi, i Twitter di Maduro, di altri dirigenti bolivariani, del PSUV hanno subito un’attacco di hacker dalla vicina Colombia, secondo la denuncia di una “guerra sporca”. L’attacco si è concentrato a un certo punto sulla pagina della CELAC, la Comunità degli Stati latinoamericani e dei Caraibi e soprattutto contro quella del Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) che a fine giornata aveva collezionato più di 45.000 tentativi di intrusione.
Anche in Italia, con La Repubblica in prima fila ed il Corriere della Sera a seguire, i grandi mezzi di “dis-informazione” hanno scommesso sulle divisioni interne al PSUV, sui problemi economici, disegnando scenari catastrofici e manipolando ancora una volta la realtà. Voci in perfetta sintonía con quella del generale John Kelly, a capo del Comando Sur degli Stati Uniti, che nei giorni scorsi aveva dichiarato che l’economia venezuelana era “traballante”, in particolare quella della industria petrochimica «vecchia e che ha bisogno di molte risorse per rinnovarsi». In una recente audizione al Congresso Statunitense, lo stesso generale Kelly aveva però dovuto confessare che «ci aspettiamo che vinca Nicolas Maduro». Bisognerebbe suggerire al generale di spiegarlo a molti giornalisti italiani che ancora non se ne fanno una ragione.
E a proposito di mezzi di “comunicazione” di massa, una curiosità: il partito di Capriles si chiama Primero Justicia (Prima la giustizia). Il nome è stato scelto dagli spin doctors dei media, prendendo spunto da una fortunata serie televisiva molto in voga qualche anno fa.

Marco Consolo

in data:15/04/2013