Allerta Venezuela

di Marco Consolo – Guerre e Pace (n° 171), Luglio 2013 

“Una rivoluzione che non si sa difendere, non è una rivoluzione”

Bertold Brecht

 

Dopo la prematura scomparsa di Hugo Chávez e la vittoria di stretto margine di Nicolás Maduro alle elezioni presidenziali dello scorso 14 aprile, sul Venezuela bolivariano incombono pesanti minacce. Il processo di trasformazione avviato quindici anni fa è oggi più debole e quindi i suoi avversari sono più forti.

Il Venezuela si conferma come paese cardine nella strategia di destabilizzazione continentale contro il nuovo corso progressista latinoamericano, dai cui esiti dipende molto di ciò che succederà nei prossimi mesi nel resto del continente.

Nell’attacco sferrato alla Rivoluzione bolivariana ci sono stati diversi episodi pericolosi, in un crescendo della miscela di strategia golpista classica e di moderna destabilizzazione. È così che la pressione degli Stati uniti e della destra interna e internazionale è destinata ad aumentare.

Come si ricorderà, a poche ore dal voto (la cui limpidezza è stata confermata da governi di destra e di sinistra) il candidato sconfitto dell’opposizione, Henriques Capriles, si è rifiutato di riconoscere il risultato e ha incitato apertamente alla violenza squadrista. Il giorno dopo vi sono stati incendi di sedi del Partido Socialista Unido de Venezuela (Psuv), di Centri di salute dove lavorano i medici cubani con chiari intenti xenofobi, attacchi alle abitazioni di dirigenti chavisti, alle sedi locali del Consiglio Nazionale Elettorale (CNE), alle concentrazioni pacifiche dei sostenitori di Maduro ecc.  La violenza fascista ha provocato ben 11 morti nelle file chaviste e decine di feriti. E secondo lo schema ormai consolidato del “mondo al rovescio”, con una buona dose di ipocrisia il presidente Obama ha dichiarato che “l’intero emisfero sta assistendo alla violenza, alle proteste e agli attacchi contro l’opposizione”.

 

AMERICA AGLI AMERICANI !

Dopo l’attacco del Vice-Presidente Joe Biden, aggressive e provocatorie sono state anche le dichiarazioni del democratico John Kerry, il Segretario di stato nominato dopo la Clinton, che ha rispolverato la antica Dottrina Monroe del IXX secolo:  “L’America latina è il nostro cortile di casa (…)” e “faremo il possibile per cambiare l’atteggiamento di diverse nazioni dove abbiamo assistito a una specie di rottura negli ultimi anni”. Scomparso Hugo Chávez, Kerry ha annunciato una visita a Colombia e Brasile, mentre Obama è stato in Messico e Costa Rica. Obama ha attaccato duramente il processo bolivariano affermando che “il popolo  venezuelano  merita di poter determinare il proprio destino, libero da quel tipo di pratiche nefaste già eliminate in gran parte dell’America latina”. “Abbiamo le prove che il Venezuela non osserva i principi base dei diritti umani, della democrazia, della libertà di stampa e di riunione”.

Il bue dice cornuto all’asino, verrebbe da dire. I governi bipartisan degli Stati uniti, coinvolti storicamente nel terrorismo di Stato (basti pensare al famigerato Plan Condor), esperti in manipolazioni elettorali, oltre che promotori di golpe in tutto il continente latinoamericano, si permettono di dare lezioni di “democrazia” targata “american way of life”. Dopo l’orrore iracheno di Abu Ghraib, il mondo guarda con sgomento a ciò che succede da più di dieci anni nella prigione illegale di Guantanamo, dove si pratica la tortura su prigionieri tenuti in condizioni degradanti. E Obama non rispetta gli impegni di chiuderla, sbandierati sia nel 2008, che nel 2012.

Non c’è dubbio che queste ultime dichiarazioni non fanno che peggiorare i già delicati rapporti diplomatici tra Washington e Caracas.

Negli ultimi anni, la tattica di Washington in Venezuela, Bolivia, Ecuador è stata quella di finanziare l’opposizione (attraverso Usaid, Ned, Ong e fondazioni ad hoc) per rafforzare lo scontro con i governi progressisti e cercare di destabilizzarli. È lo “smart power” del XXI° secolo, che fomenta, tra le altre, manifestazioni “spontanee” degli studenti sul modello delle “rivoluzioni arancioni” dell’Est europeo (le cosiddette “mani bianche”, che lungi dall’essere pacifiche degenerano rapidamente in violenti scontri).

Ma insieme ai metodi di ingerenza “pacifica”, l’agenda occulta è un’altra. E se il presidente Maduro ha denunciato con nomi e cognomi un tentativo di assassinarlo, sul versante interno i settori fascisti hanno adottato lo stesso schema del golpe del 2002, forti del buon risultato elettorale della destra che si crede per vocazione destinata al governo e al potere. E che non tollera di perdere ancora una volta.

Dall’altra parte, il Psuv, il Partito comunista e le altre  forze del Gran Polo Patriottico si interrogano sui risultati del voto che ha visto diminuire i consensi verso il loro candidato con uno spostamento di una parte significativa dell’elettorato (685.000 voti in soli sei mesi, circa il 5%). E qui la lettura del voto si complica.

 

UNA VITTORIA AMARA

Di certo la campagna elettorale di Maduro è stata impostata prioritariamente sull’immagine e la fedeltà alla figura di Hugo Chávez, e quindi sulla continuità di governo. Maduro ha dovuto affrontare le critiche dirette al governo per  l’insicurezza, l’inefficienza nella produzione petrolífera, la mancanza di beni di consumo, uno scenario avverso che anche il comandante Chávez aveva dovuto affrontare. L’astensione (aumentata leggermente dal 19,06 % al 20,16%) ha penalizzato il candidato socialista, che ha allertato sulla sua crescita nei quartieri popolari, dove è stata di 5-6 punti più elevata che nei quartieri “alti”, presenti massicciamente alle urne. Maduro ha sostenuto che molta della sua gente non è andata a votare illudendosi che sarebbe stata sufficiente l’onda emotiva determinata dalla scomparsa del presidente Chávez. Ma quell’astensionismo non basta a spiegare il calo dei consensi, e in questi mesi si è discusso a fondo nelle file chaviste, ancora sgomente per la scomparsa del Comandante.

Anche la corruzione di diversi quadri istituzionali (ministri, deputati, governatori, candidati a sindaco), denunciata dalla base, ha demotivato molta  gente al voto.

Sul versante economico, le misure di svalutazione di febbraio, a solo due mesi dalle elezioni, hanno certamente influito sul pessimismo di settori di classe media e di alcuni settori popolari con minore coscienza, dato l’impatto negativo sul loro potere d’acquisto. L’inflazione (4,3% ad aprile) rischia di arrivare al 30% a fine anno.

Nei giorni seguenti al voto, Maduro ha parlato di “autocritica senza autoflagellazioni”, ricordando la necessità di far emergere nuovi dirigenti. Il Presidente ha chiesto una “rettifica profonda” per poter costruire un “poderoso movimento rivoluzionario di massa”, rafforzandone la direzione politico-militare. Ha insistito sull’unione civico-militare, colonna vertebrale di questi 14 anni di processo bolivariano. Ma in campagna elettorale, i contenuti del “Plan de la Patria” elaborato da Chavez sono rimasti in secondo piano. Si è parlato poco di programmi e proposte concrete e riconoscibili, con uno show mediatico eccessivamente nostalgico e con déficit di contenuto político.

Viceversa la destra, riunita sotto l’ombrello della “Mesa de Unidad Democratica” (Mud), è riuscita a crescere di consenso senza un vero e proprio programma, ma attaccando ai fianchi i punti più deboli della gestione governativa ed ergendosi a paladina della causa  dei diseredati. Capriles all’inizio ha adottato spregiudicatamente un discorso “filo chavista”, assicurando di voler mantenere le “misiones” sociali bolivariane, aumentare il salario del 40%, ha rivendicato il contratto collettivo e l’estensione dei diritti sindacali. Ha promesso mari e monti, sempre attento a non essere identificato con il passato neoliberista di cui è l’erede politico.

Mentre gli squadristi ancora una volta uccidevano, Capriles e l’estrema destra venezuelana parlavano di pace e democrazia con la copertura delle grandi catene mediatiche, accusando di illeggitimità il governo Maduro, e cercando di minare la credibilità dell’autorità elettorale, il CNE. Nella “guerra di quarta generazione” l’artiglieria mediatica non dà tregua. È lo scenario della madre di tutte le battaglie, quella delle idee, per la conquista dei cuori e delle coscienze. A sua volta, l’attacco cibernetico ha dispiegato le ali in occasione delle elezioni quando diversi account delle cosiddette “reti sociali” di dirigenti socialisti sono state oscurate o manipolate, così come i siti web di alcuni partiti di sinistra.

Oltre a bussare alla porta di tutti i possibili organismi internazionali “amici”, alcuni deputati antichavisti hanno realizzato in America latina viaggi paralleli a quelli ufficiali di Maduro con l’obiettivo di rafforzare l’articolazione della destra continentale. 

Mentre invoca l’ingerenza e l’intervento armato straniero, l’opposizione usa la carta della destabilizzazione politica e del sabotaggio economico con l’obiettivo di vincere il referendum revocatorio del mandato presidenziale, previsto dalla Costituzione venezuelana a metà mandato, fra tre anni. Un referendum che nel 2004 Chavez aveva vinto senza problemi. Bastone e carota usati alternativamente da un lupo travestito da agnello, da un’opposizione che in questi anni ha fatto crescere diversi quadri con esperienza, anche grazie al generoso aiuto finanziario dello “smart power”. 

 

IL CAMMINO PERCORSO

Da 14 anni il Venezuela bolivariano ha dato una dura battaglia contro il potere imperiale Usa, ed è stato il primo paese che nel XXI° secolo ha dichiarato la propria volontà di costruire il socialismo.

Le enormi conquiste in materia di eguaglianza nella distribuzione della ricchezza, nella riduzione della povertà, nel miglioramento delle condizioni di vita dei settori più umili, nella salute e nell’educazione, sono state possibili grazie alle nazionalizzazioni dei settori strategici dell’economia, primo fra tutti quello energetico. Sono misure che hanno guadagnato la simpatia e l’appoggio di ampi settori nel mondo (incluso negli stessi Stati uniti), oltre a ridare vitalità al dibattito internazionale sulla disgiuntiva tra socialismo o barbarie.

Sul versante continentale la vittoria di Maduro significa la possibilità di consolidare e approfondire i legami di solidarietà e complementarietà economica e politica regionale. Nel continente la Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América  (Alba) è probabilmente l’esperienza politicamente più ambiziosa. Basata sui principi della solidarietà e della complementarietà, l’Alba è un’alternativa concreta alla concezione statunitense di “aiuto” condizionato dall’ingerenza politica ed economica, da tempo in voga nel “cortile di casa”. L’entrata del Venezuela nel Mercosur, la creazione e il rafforzamento di un organismo come la Unasur e della Celac e programmi come Petrocaribe e il Banco del Sur, frutto della decisiva iniziativa venezuelana, sono stati fondamentali in questa nuova architettura geopolitica dell’unità latinoamericana in costruzione.

Da non dimenticare l’importante iniziativa per la soluzione politica e negoziata del sanguinoso conflitto armato colombiano, iniziativa che ha contribuito a far sedere il governo colombiano e la guerriglia delle Farc-Ep al tavolo del dialogo che si svolge a Cuba.

La solidarietà internazionalista del Venezuela bolivariano (che ha dato priorità ai paesi poveri con forte presenza dei popoli originari e afrodiscendenti)  ha ridato cittadinanza al concetto di socialismo in America latina, anche in settori popolari fortemente influenzati dal cattolicesimo.

E non c’è dubbio che l’elezione a Papa dell’argentino Jorge Mario Bergoglio sia parte della controffensiva ideologica nel continente per contrastare l’influsso delle esperienze di trasformazione in atto.

 

VERSO LO STATO COMUNALE

Sul versante interno, poche ore dopo la sua ultima vittoria elettorale, nel suo discorso dal “balcon del pueblo” il presidente Hugo Chávez aveva annunciato l’inizio di una nuova fase nella costruzione del socialismo venezuelano, con un appello alla critica e all’autocritica, a moltiplicare l’efficienza, a farla finita con un certo burocratismo di parte della nomenclatura, ma soprattutto a rafforzare il poder comunal.

Pochi giorni dopo, il 20 ottobre, nel primo Consiglio dei ministri di questa nuova fase, Chávez aveva parlato della necessità del “golpe de timón”, per il mandato 2013-2019, nuovo ciclo della Revolución bolivariana, quellodella  “transizione verso lo stato comunale”.L’autocritica si fa per rettificare, non perché cada nel vuoto” (1). Aveva chiesto un bilancio dell’esperienza fin lì realizzata  per consolidare gli obiettivi raggiunti e rafforzare le potenzialità, ma anche per correggere gli errori commessi e poter avanzare nella materializzazione del progetto del socialismo del XXI° secolo e dello Stato Comunale.

Sulla carta, lo Stato Comunale è la “forma di organizazione político-sociale fondata sullo Stato democratico di diritto e di giustizia stabilito nella Costituzione della Repubblica, nella quale il potere è nelle mani del popolo che lo esercita attraverso l’autogoverno comunale, con un modello economico di proprietà sociale, e di sviluppo endogeno e sostenibile, che permetta di ottenere la suprema felicità sociale dei venezuelani e delle venezuelane nella società socialista. La cellula fondamentale di conformazione dello Stato Comunale è la Comuna” (2).

La vittoria elettorale di Maduro ratifica questo nuovo ciclo e l’opportunità di avanzare nella “convivenza solidale e il soddisfacimento delle necessità materiali e intangibili di tutta la società, che abbia come base fondamentale il recupero del valore del lavoro in quanto produttore di beni e servizi per soddisfare le necessità umane e ottenere la suprema felicità sociale e lo sviluppo umano integrale” (3).

Memore delle esperienze del “socialismo reale”, il presidente Chávez aveva sottolineato, tra le sfide che aveva davanti il processo bolivariano, “la costruzione di una democrazia realmente socialista per il XXI secolo… che passi per la logica del consenso e della convinzione, non per quella dell’imposizione. (…) Ciò implica tra l’altro, un lavoro politico popolare e comunale che permetta che tutti i settori sociali popolari si identifichino come soggetti protagonisti del processo rivoluzionario e possano esercitare pienamente la democrazia partecipativa, protagonista e corresponsabile”.

In questo quadro, la Comuna è lo spazio più completo per l’espressione del Poder Popular, “uno spazio socialista che, come entità locale è definita dall’integrazione delle comunità limitrofe, con una memoria storica condivisa, tratti culturali, usi e costumi che riconoscono le attività produttive che servono loro come sostento e sui quali esercitano i principi di sovranità e partecipazione protagonica come espressione del Poder Popular”(4).

Per assicurare una democrazia economica, la condizione necessaria è modificare la base produttiva, avendo come principio rettore la piena partecipazione dei produttori associati. Il sistema economico della Comune si dovrebbe basare su “un insieme di rapporti sociali di produzione, distribuzione, intercambio e consumo di beni e servizi, così come di saperi e conoscenze, sviluppato dalle istanze di Poder Popular, del Poder Público, o attraverso l’accordo tra entrambi, attraverso organizzazioni  socio-produttive sotto forma di proprietà sociale comunale”(5).

Con la priorità del rafforzamento del Poder Popular il Comandante aveva segnalato la necessità di un dibattito di fondo per affrontare la cosiddetta “istituzionalizzazione” della rivoluzione e i suoi effetti di burocratismo e di spostamento a destra:  “Qualcuno deve organizzare un grande foro sulla via al  socialismo. (…) La mancanza di dibattito ci porta alla sconfitta”.

 

LA TRANSIZIONE AL SOCIALISMO

Con Gramsci, che conosceva bene, analizzava la transizione venezuelana, dove il vecchio modello è ancora vivo e il nuovo inizia solo ora a nascere: “Non ci inganniamo: la formazione socio-economica che ancora prevale in Venezuela ha carattere capitalista e rentista. Di certo, il socialismo ha appena cominciato a generare il proprio dinamismo interno tra di noi. Questo è un programma fatto precisamente per dargli consistenza e approfondirlo, che va nella direzione di una radicale soppressione della logica del capitale, che deve implementarsi passo dopo passo, però senza diminuire il ritmo del suo avanzamento verso il socialismo”.

Insisteva nella radicalizzazione della democrazia e nell’impedire la riproduzione della burocrazia nel partito, nel governo, nel parlamento, nei movimenti sociali, nei sindacati ancora deboli. Il Plan de la Patria, “è un programma di transizione al socialismo e di radicalizzazione della democrazia partecipativa e protagonista. Partiamo dal principio che accelerare la transizione  passa necessariamente, valga la ridondanza, dall’accelerare il processo di restituzione del potere al popolo. Il vivo, effettivo e pieno esercizio del Poder Popular protagonico è condizione insostituibile della possibilità del socialismo bolivariano del XXI° secolo”. Aveva citato il teorico marxista ungherese István Mészáros: “L’unità di misura del raggiungimento di obiettivi socialisti è: fino a che punto le misure e le politiche adottate contribuiscono attivamente alla costituzione e al consolidamento radicato di un modo sostanzialmente democratico, di controllo sociale e di autogestione generale”.

E pensando alla rivoluzione nella sfera della produzione, aveva parlato di costruire nuovi modelli produttivi socialisti, “Le fabbriche costruite con fini capitalisti portano il segno indelebile del suo “sistema operativo”, la divisione  sociale gerarchica del lavoro insieme alla quale sono state costruite. Un sistema produttivo che vuole attivare la partecipazione piena dei produttori associati, dei lavoratori, ha bisogno di una molteplicità di processi ‘paralleli’, coordinati in maniera adeguata, così come di un corrispondente sistema operativo che sia radicalmente differente (…)”.

Oggi ci sono più di mille imprese “recuperate”, alcune con totale autogestione operaia, altre con un modello misto di cogestione e altre ancora che producono grazie ai sussidi statali. Settori economici che in questa fase convivono con l’industria privata e quella di Stato. Una transizione che ha davanti a sé anche la necessaria industrializzazione del paese, messa da parte dai tempi della “Venezuela saudita”, quella della monocoltura del petrolio svenduto alle multinazionali.

 

LA RIVOLUZIONE AL BIVIO

Paradossalmente la lieve ripresa economica statunitense potrebbe favorire una certa stabilità del prezzo del petrolio – lo “sterco del diavolo” che gli Usa importano dal Venezuela in grandi quantità – e così permettere al governo bolivariano di avere maggiori risorse disponibili per le misiones (fondamentale la gran misión vivienda sulla casa) e le altre  politiche sociali.

Ma gli importantissimi benefici che il governo Chávez ha garantito alla maggioranza della popolazione non sono bastati a vincere in maniera ampia. Nonostante la buona gestione economica e i numerosi progetti politici in marcia nel paese, manca una proposta in grado di convincere la piccola, ma influente classe media, i giovani che voteranno per la prima volta nel 2014, e recuperare i settori chavisti delusi.

Il governo bolivariano dovrà affrontare a fondo la questione delle popolazioni originarie, mal chiamate “indigene”. Anche su questo fronte si è avanzato molto nel riconoscimento dei loro diritti, sia nella Costituzione, che nella vita di tutti i giorni (presenza istituzionale, educazione multiculturale, salute e medicina tradizionale ecc.). Ma c’è ancora molto da fare a partire dalla difesa dei territori da loro abitati, uno per tutti la Sierra del Perijá, nello Stato di Zulia, dove continuano gli omicidi selettivi. Pochi mesi fa è morto in un agguato Romero Sabino, leader degli Yupka, in lotta contro i grandi allevatori latifondisti, ma anche in disaccordo con le modalità di estrazione petrolifera nel loro territorio. Un’attività che non sempre rispetta i diritti delle comunità che vi abitano.

Il governo bolivariano dovrà dare impulso al “Plan de la Patria 2013-2019”, il progetto elaborato da Chávez che deve dare le basi di sviluppo al Venezuela del futuro. Le enormi riserve petrolifere di cui dispone il Venezuela sono sempre state “fortuna e maledizione”, e troppi appetiti sono in agguato. 

Per contrastare le tendenze golpiste sarà decisivo il grado di maturazione della coscienza e dell’organizzazione popolare, della sinistra nel suo complesso, degli organismi di massa territoriali, dei movimenti sociali e sindacali, delle donne. Maduro adesso avrà il compito e la responsabilità di mantenere l’unità del blocco sociale chavista e di non perdere il legame con la base sociale che si identifica con il modello socialista. In questa direzione va la proposta ribattezzata come “gobierno en la calle”. Un dialogo iniziato tre giorni dopo l’investitura presidenziale che lo ha visto viaggiare in tutti gli stati. Si tratta di approfondire il legame con la popolazione, con i settori operai, le organizzazioni sociali, le cooperative, il campesinado, per discutere i temi relativi a produzione, salute, educazione, casa, Poder Popular e sicurezza.

E a proposito di criminalità, a maggio è iniziato il piano “Patria Segura”, con 3.000 effettivi della Fuerza Armada Nacional Bolivariana (Fanb), che si aggiungono alla Guardia Nacional bolivariana nella capitale e nello stato di Miranda, governato da Capriles. Una repressione del crimine che va di pari passo con i programmi sociali contro la povertà e che il governo spera dia risultati concreti a medio termine.

Come  sosteneva lo stesso comandante Chávez, c’è bisogno di un “colpo di timone”, di una battaglia senza quartiere contro la burocrazia, la corruzione, l’inefficienza e lo spreco, oltre alla criminalità e all’accaparramento dei beni, controllando allo stesso tempo l’inflazione e difendendo il potere d’acquisto dei salari. Compito tutt’altro che semplice.

Ma la scommessa che non si può perdere è quella di  approfondire il processo rivoluzionario, democratico e partecipativo, in maniera irreversibile, rafforzandone gli elementi di autogestione dal basso, i “consejos comunales” e gli altri embrioni del Poder Popular. L’estensione della democrazia e un quadro economico favorevole sono quindi condizioni indispensabili per la transizione socialista.

La posta in gioco di questa battaglia è mantenere la speranza di cambiamento. Non ci sono vie di mezzo possibili. Se vince la destra si torna al passato. Viceversa, se si consolida il processo bolivariano sarà possibile una trasformazione in senso socialista della patria di Simón Bolívar.

 

NOTE

(1) Hugo Chávez, Golpe de Timón. I Consejo de Ministros del nuevo ciclo de la Revolución Bolivariana,  www.minci.gob.ve/2013/03/golpe-de-timon/ (2012).

(2) Articolo 4, Ley Orgánica de las comunas, www.me.gob.ve/media/contenidos/2012/d_26525_323.pdf

(3) Definizione del socialismo nella Ley orgánica de las comunas , dicembre 2010.

(4) Articolo 5, Ley Orgánica de las comunas, www.me.gob.ve/media/contenidos/2012/d_26525_323.pdf

(5) Articolo 2, Ley Orgánica del sistema económico comunal, www.fondemi.gob.ve/documentos/LEYDELSISTEMAECONOMICO.pdf