America Latina: il gigante si sveglia ?

Guerre e Pace (n.115) Dicembre 2004

Le ultime elezioni avvenute in importanti paesi dell’America latina hanno messo in evidenza una chiara ed esplicita richiesta di rottura con le violente politiche neoliberiste in atto da quasi trenta anni. Segnali incoraggianti di cambiamento, ma sui quali gravano pesanti ipoteche.

Poche ore prima della vittoria di Bush negli Stati uniti ci sono state elezioni importanti in ben quattro paesi latinoamericani, Uruguay, Venezuela, Brasile e Cile, con l’affermazione dei candidati della sinistra e dei movimenti popolari.

URUGUAY

Certamente le più importanti sono state quelle uruguaiane in cui si è votato per presidente e parlamento: si cambia dopo ben 174 anni di dominio di due partiti, Blancos y Colorados,  espressioni dei poteri forti, Opus dei e massoneria innanzitutto, ma anche del capitale associato alle grandi multinazionali.

La speranza si è avverata e la coalizione del Frente amplio ha vinto per il rotto della cuffia evitando un delicato ballottaggio. Dopo due mandati al governo della capitale  Montevideo, dove si concentra un terzo della popolazione, a partire dal prossimo marzo il Frente Amplio assumerà la responsabilità del paese. Nella coalizione del Frente amplio, nata nel 1971, convivono diverse anime: il Movimento di liberazione nazionale (ex tupamaros), il Partito socialista, il Partito comunista e altri. L’unità è stato un fattore decisivo per vincere e oggi è sottoposta alla prova di un accordo programmatico tutto da verificare nei fatti.

Dopo la vittoria negli anni passati del referendum che chiedeva di bloccare la privatizzazione dell’industria nazionale del petrolio (Ancap), importantissima è stata anche la vittoria nel referendum parallelo alle elezioni contro la privatizzazione dell’acqua. Un referendum appoggiato e vinto dal Frente amplio.

LE SFIDE CHE LO ATTENDONO

“El paisito” (come i potenti vicini chiamano l’Uruguay) è in rovina grazie alle dissennate politiche neoliberiste che hanno smantellato la scarsa capacità industriale del paese. È in ginocchio l’allevamento e l’industria di trasformazione della carne – principale prodotto d’esportazione – già duramente colpita dalla chiusura del mercato statunitense mentre i latifondisti brasiliani acquistano enormi appezzamenti alla frontiera. Il modello di stato sociale è a pezzi e i contraccolpi della crisi finanziaria argentina hanno spinto violentemente la classe media nella povertà. La prima sfida è quella della ripresa produttiva e della creazione di occupazione che rimetta in moto il paese della “milonga” e del “tango”.

Anche sul versante internazionale, nonostante il suo modesto peso politico ed economico, le sfide non sono da poco. L’Uruguay infatti è innanzitutto parte integrante del Mercosur, il mercato comune con Brasile, Argentina, e Paraguay, il tentativo più avanzato di integrazione tra paesi e mercati del Cono Sur, che viene visto come il fumo negli occhi dagli Stati uniti. A sua volta il Mercosur sta trattando importanti accordi con la Comunità andina di nazioni (Can), l’altro blocco formatosi negli anni passati e di cui fanno parte Bolivia, Colombia, Perù, Ecuador e Venezuela.

Il secondo punto, fortemente simbolico, è quello dei rapporti con Cuba, gravemente compromessi dal servilismo del vecchio presidente Battle nei confronti dei diktat degli Stati uniti. C’è aspettativa per la ripresa dei rapporti diplomatici e gli scambi economici con l’isola ribelle interrotti dal 2002.

VENEZUELA

In Venezuela si sono svolte le elezioni in molti stati importanti (si tratta di una repubblica federale) e grandi città, tra cui la stessa Caracas metropolitana.

La vittoria dei candidati del governo Chávez è stata schiacciante. Ma lo stato di Zulia, al confine con la Colombia, dove si estraggono un milione di barili al giorno di petrolio, è rimasto in mano all’opposizione. Si tratta di una zona privilegiata nella strategia di destabilizzazione, da cui partono molte delle incursioni delle bande paramilitari colombiane contro il movimento contadino venezuelano e non solo.

Dopo il tentativo frustrato di golpe del 2001 e la serrata petrolifera del 2002 oggi quella parte dell’opposizione che aveva chiamato al boicottaggio non vuole accettare il risultato, così come già avvenuto in occasione del referendum di ferragosto contro Chávez. Una strategia che cerca di mantenere l’instabilità politica nel paese.

È la seconda sconfitta in pochi mesi per quanti cercano di vendere l’immagine di un paese schierato a maggioranza contro la “dittatura castro-comunista di Chávez” e una grande prova di tenuta democratica della “revoluciòn bonita”. Ricordo che i Democratici di sinistra italiani, come buona parte delle forze dell’Internazionale socialista, appoggiano i partiti dell’opposizione che ad essa fanno riferimento, come Acciòn Democratica, il partito dell’ex presidente Carlos Andrès Perèz. Lo stesso Perèz, dal suo esilio dorato in Repubblica dominicana, nei mesi scorsi aveva fatto appello a liberarsi di Chávez con la forza definendolo come un “cane rabbioso”. 

Sul versante bolivariano cresce la richiesta di approfondire il processo di trasformazione in atto nel paese, che è il quinto produttore mondiale di petrolio.

BRASILE

Più contraddittoria la situazione brasiliana. Alla crescita del Partito dei lavoratori (Pt) di Lula che conquista consensi e città fa da contraltare la perdita al secondo turno di due roccaforti fortemente simboliche (Sao Paulo e Porto Alegre), in cui il Pt era al governo da anni. La prima è la città operaia per definizione, nella seconda si dovrebbe tenere la prossima edizione del Forum sociale mondiale.

Il gigante Brasile manda un segnale al governo progressista di Lula che non può essere ignorato o liquidato con sufficienza. Di certo ha pesato la politica nazionale e le controverse misure come la riforma della previdenza sociale, il via libera agli Ogm ecc. L’esperienza della “democrazia partecipativa” non è bastata a mantenere consenso.

Non hanno giovato neanche gli scontri interni alle diverse anime che compongono il Pt che ne hanno logorato l’immagine locale. I movimenti sociali (a cominciare dai Sem Terra, ma anche la potente centrale sindacale Cut) hanno saputo mantenere il conflitto sociale e difendere gelosamente la loro autonomia dal “governo amico”, a cui però non hanno mai ritirato l’appoggio.

L’ipoteca pesante dell’enorme debito estero, la pressione del Fondo monetario, i continui bracci di ferro con i poteri forti (in primo luogo le banche) e la mancanza di una maggioranza parlamentare sicura hanno impedito a Lula di mettere in atto politiche più incisive contro la fame, la povertà, la disoccupazione. Ma certamente anche il moderatismo continuista di settori del governo e dello stesso Pt ha rotto l’incanto dei primi tempi e la pressione sociale è sempre più forte. Anche qui la richiesta di una svolta nella politica si fa sempre più pressante.

CILE

In Cile, a prima vista, tutto segue come prima e cresce la forbice sociale. Secondo dati recenti la disoccupazione ufficiale è al 10% (ma il cosiddetto “lavoro informale” è alle stelle), i profitti del settore finanziario al 34%, la crescita del Pil al 3%, le perdite milionarie per il mancato pagamento di royalty da parte delle grandi imprese private e delle multinazionali del rame, la povertà al 20% e cresce il deteriorarsi della possibilità di accesso della maggioranza della popolazione ai servizi di salute, educazione (soprattutto a livello universitario) a prezzi abbordabili.

Nelle elezioni municipali vince la Concertaciòn democratica (alleanza tra Dc, Ps, Ppd e altri oggi al governo), che però perde consensi, mentre la destra è al palo (perde meno, ma perde). La Dc ridiventa il primo partito politico, seguita a ruota da due forze della destra (la Udi di Pinochet e Renovacion nacional). Solo al quarto posto i socialisti e il Ppd, a pari merito.

Ma, nonostante le apparenze, c’è una novità politica a sinistra: la presenza di una terza forza autonoma dal bipolarismo bloccato dal 1990, quando Pinochet dovette abbandonare il potere. Si tratta di “Junto Podemos”, un recente accordo politico-programmatico sfociato in un’alleanza elettorale tra il Partito comunista, il Mir, il Partito umanista, la Sinistra cristiana, insieme a settori di movimento sociale e popolare. Ottiene il 9%, superando le più rosee aspettative, nelle elezioni municipali e per il rinnovo dei sindaci (per la prima volta c’è il voto disgiunto). Nel laboratorio storico del neoliberismo mondiale si tratta di un buon battesimo per un’ipotesi a lungo termine che ha l’ambizione di influire sul quotidiano, ma anche sulle elezioni generali del marzo 2006.

LE IPOTECHE SUL CAMBIAMENTO

Come si vede, situazioni diverse, accomunate però da una richiesta chiara ed esplicita di rottura con le violente politiche neoliberiste sofferte dal continente da quasi trenta anni. Ma se sul piano politico i segnali sono incoraggianti, le pesanti ipoteche sul cambiamento sono molte.

Innanzitutto il conflitto narcotizzato in Colombia, cartina di tornasole delle politiche di Washington nel “cortile di casa” e che coinvolge sia i paesi limitrofi (Venezuela, Brasile, Ecuador e Perù) che tutto il continente. La Colombia di Uribe è oggi la principale piattaforma di aggressione contro i processi di cambiamento in atto. Piaccia o no, senza un nuovo processo di pace che favorisca una soluzione politica del conflitto armato che insanguina il paese da decenni, non esiste la possibilità di una stabilità e di una pace duratura nella regione.

Al contrario, la militarizzazione avanza a grandi passi. Si inaugurano nuove basi militari statunitensi e si ingrandiscono quelle già esistenti. Con il Plan Colombia e l’Iniziativa regionale andina (Ira), alle basi di Guantanamo a Cuba, Roosevelt Roads e Fort Buchanan a Puerto Rico, Palmerola e Soto Cano in Honduras, Comalapas in El Salvador, Curaçao e Aruba nelle Antille olandesi, si sono aggiunte quella gigantesca di Manta in Ecuador, Huallaga in Perù, Tres Esquinas, Larandia e Puerto Leguizamo in Colombia.

Negli ultimi anni si sono succedute decine di manovre militari congiunte di molti eserciti latinoamericani con le truppe statunitensi (Unitas, Cabañas, Aguila, Fuerzas Unidas, Cruz del Sur, Ceibo, Fluvial, Apoyo Humanitario ecc.), tutte in prossimità di luoghi con risorse naturali strategiche. Nella richiesta al parlamento argentino di autorizzazione all’entrata di truppe straniere, l’ex presidente De La Rua sosteneva la necessità di “prepararsi per la lotta in un campo di battaglia composto da civili, organizzazioni non governative e aggressori potenziali”. La richiesta Usa della creazione di una forza militare multinazionale latinoamericana si è concretizzata nell’invio di truppe ad Haiti da parte di Brasile e Cile tra gli altri. E a Novembre si è tenuta a Quito, in Ecuador, la riunione dei ministri della Difesa di tutte le Americhe: all’ordine del giorno il rafforzamento di una forza di intervento rapido nelle “aree di crisi”. 

Sul piano economico, nonostante la battuta d’arresto, il progetto di Bush padre di creare l’Area di libero commercio delle Americhe (Alca) continua a pesare come un macigno sulle prospettive di un’integrazione regionale più equilibrata e non dipendente dal gigante del Nord. Per contrastarla, nonostante le sue contraddizioni interne, uno dei primi obiettivi è il rafforzamento del Mercosur,  in cui il Venezuela ha chiesto di entrare. L’Uruguay governato dalla sinistra può favorirlo e il “paisito” guarda con attenzione agli accordi (commerciali, energetici e nel campo dei mezzi di comunicazione) che vedono protagonisti tre giganti come Venezuela, Brasile e Argentina.

L’ALTRA EUROPA

La rielezione di Bush preoccupa il continente e un’altra Europa, non dominata dalle stesse logiche neoliberiste, potrebbe far molto. Ma le proposte europee di accordi economici (in primo luogo con il Mercosur) ricalcano, peggiorandola, l’agenda dell’Organizzazione mondiale del commercio.

Di certo possono e devono far molto la sinistra e il movimento europeo per costruire un programma comune con le forze della sinistra latinoamericana, alcune di esse oggi al governo. Molti sono i temi possibili, a cominciare dall’agricoltura, l’energia, l’acqua, i brevetti, la filiera delle delocalizzazioni industriali, la presenza di capitale finanziario “europeo”.

La proposta di un “Osservatorio sugli accordi economici tra Ue e America latina”, e degli stessi “Accordi di cooperazione”, avanzata anche in occasione del Forum sociale europeo di Londra, può essere un terreno concreto di iniziativa e mobilitazione anche per il nostro paese.