Cile: cronaca di una sconfitta annunciata

di Marco Consolo –

I risultati delle elezioni del 7 maggio che hanno definito i 51 membri del Consiglio Costituzionale (25 donne, 25 uomini e un rappresentante delle popolazioni originarie) per avanzare in un nuovo processo costituente, hanno confermato le previsioni della vigilia: con un’alta affluenza alle urne, vicina all’85%, la destra ha conquistato la maggioranza dei voti e dei consiglieri. In particolare, nonostante abbia leggermente diminuito i consensi, l’estrema destra del Partito Repubblicano ha in mano la chiave del processo costituente con i suoi 23 rappresentanti, ed il potere di veto. Il risultato apre un nuovo scenario politico ancora fortemente incerto, in una transizione post-dittatura che sembra non avere fine. Ma andiamo con ordine.

I risultati sono stati la seconda doccia fredda per chi aveva scommesso su un vero cambiamento costituzionale e, allo stesso tempo, una bocciatura del governo Boric. Una sconfitta che si aggiunge a quella nel referendum del 4 settembre 2022, quando con un secco 62 % era stata respinta la proposta di nuovo testo della Carta Magna, preparato dalla “Convenzione Costituzionale” per sostituire quello della dittatura civico-militare di Pinochet.

La destra si è appropriata di quel 62%, come se fosse un’approvazione al proprio operato, quando in realtà le ragioni sono state multiple. È indiscutibile che ci sia stato un importante voto di destra, ma insieme ad un rifiuto anti-élite in molti strati della gioventù ed un voto di castigo all’operato del governo.

Pochi giorni dopo quel risultato, con una forte pressione delle destre, i partiti presenti in Parlamento hanno raggiunto un accordo per la redazione del nuovo testo, affidato ad un “Consiglio costituzionale”. Un accordo spurio, che ha ribaltato la volontà di quasi l’80% della popolazione che, nel 2021, aveva votato a favore di un testo redatto da una “Convenzione costituzionale” e non dal parlamento attuale, “tutore” del processo di elaborazione di questo processo costituente n° 2.

I numeri

I risultati ci consegnano un “Consiglio costituzionale” con una schiacciante maggioranza delle destre, in sintonia con l’onda lunga della precedente sconfitta, anche a causa di una legge elettorale fortemente maggioritaria e diseguale,

In questa occasione, le destre si sono presentate divise in ben 3 liste: quella più estrema e pinochetista del Partito Repubblicano; quella “tradizionale” nella coalizione “Cile Sicuro” (Unione Democratica Indipendente, Renovaciòn Nacional ed Evopoli); e quella “neo-populista” del “Partito della gente”. Il Partito Repubblicano ha avuto una forte affermazione (quasi il 36% dei votanti e 23 eletti), a scapito di quella “tradizionale” (21% ed 11 eletti), mentre l’ultima non ha passato la soglia di sbarramento, nonostante il 5,48 % (537.000 voti).  Il risultato del Partito Repubblicano è stata una sorpresa per la stessa destra tradizionale, fortemente ridimensionata, che perde l’egemonia a favore di una destra estrema, paradossalmente legittimata attraverso il voto, e che oggi ha il boccino in mano per scrivere la nuova Carta Magna.

A sinistra, nella lista di coalizione “Unità per il Cile” delle forze di governo, si sono presentati il Partito Comunista, il Fronte Amplio, il Partito Socialista (smarcatosi dal resto del centrosinistra della ex-Concertaciòn che si è opposto ad una lista unica), la Federazione Regionalista Verde Sociale, il piccolo Partito Liberale. La lista è rimasta al palo con il 28,59 % e 16 eletti, meno dei 2/5 necessari per il potere di veto nella convenzione. Spicca la buona affermazione del Partito Comunista, che ottiene l’8,08 dei suffragi, il miglior risultato di tutta la coalizione che conferma il suo radicamento e presenza nazionale.

Al centro, in una lista a parte (Todo por Chile), si sono presentati alcuni partiti dell’antica “Concertaciòn” (Democrazia Cristiana, Partito per la Democrazia, Partito Radicale) che ha governato il Paese nel post dittatura, con poche interruzioni. Malgrado il suo 8,95 % (877.000 voti), a causa della legge elettorale questa coalizione non ha superato la soglia di sbarramento e non ha eletto nessun consigliere. La somma algebrica di questa e della lista di sinistra attribuisce loro circa il 38% dei voti, comunque largamente insufficienti per battere la destra, anche nel caso di una (mancata) lista unica.

Voto nullo e schede bianche

Discorso a parte riguarda la crescita record del voto nullo che sfiora il 17 % e del voto in bianco (4,56 %), i numeri più elevati dall’introduzione del voto obbligatorio. Come sempre non si tratta di un voto omogeneo. Ma di certo esprime maggioritariamente un rifiuto netto sia dell’accordo spurio con cui si è arrivati a questo voto, sia della sfera politica ed istituzionale, declinato in una transizione travagliata, che sembra non avere fine. Un rifiuto espresso prima dalla “rivolta sociale” anche in forme violente, poi nelle urne: dapprima nel referendum sul testo redatto dalla Convenzione Costituzionale e poi nelle recenti elezioni, anche seguendo le indicazioni di alcuni movimenti che si erano espressi per il voto nullo.

Il Partito Repubblicano

Il marchio d’origine del Partito Repubblicano è il suo profondo legame con gli ideali fascisti del pinochetismo e di Jaime Guzmán, principale ideologo della Costituzione della dittatura. Ed è importante ricordarlo per capire questa nuova-vecchia destra, oggi principale forza politica del Paese.

È nuova perché rompe con i partiti tradizionali e si rifà alle forme e modalità impetuose e cariche di odio delle destre radicali che crescono nel mondo. Copia il loro modus operandi: uso aggressivo degli algoritmi dei Big Data e delle “reti sociali”, diffusione sistematica di fake news, delegittimazione  del mondo accademico, della scienza e dei media, nonché accuse di brogli elettorali quando perde.

Ma allo stesso tempo è vecchia, perché ripropone i principi del corporativismo fascista, ed un improbabile matrimonio dell’oscurantismo culturale con il neoliberismo economico dei Chicago Boys.

È intrisa di un’ideologia che crede in uno “Stato minimo” quando si tratta di intervenire nell’economia e di garantire diritti e benefici sociali (contro l’aumento di royalties per le multinazionali del rame, contro il salario minimo, a favore della sanità privata, etc.). E contemporaneamente uno “Stato massimo” quando si tratta di imporre modelli di vita, limitando le scelte individuali. Oltre a difendere a spada tratta i responsabili delle violazioni dei diritti umani della dittatura, il Partito Repubblicano ha votato contro l’accordo sulle unioni civili, ritiene che lo Stato debba “promuovere la famiglia, composta da madre, padre e figli”, si oppone al matrimonio egualitario e all’aborto.

Il Cile si conferma il Paese dei paradossi. In pochi anni il Paese è passato dalla rivolta anti-neoliberale all’egemonia politica e culturale di una destra che non si fa scrupoli a rilanciare il pinochetismo che alcuni, troppo ottimisticamente, davano per finito. Ad oggi, i repubblicani non sono un partito con una vocazione di governo, né con una vocazione per la Costituzione, né a favore dello status quo che criticano; sono un partito identitario. L’ultimo paradosso in ordine di tempo, e forse il più clamoroso, è che  il partito più votato in questa occasione, è quello che non voleva cambiare una virgola di quella di Pinochet, né tantomeno redigerne una nuova.

Alcune ragioni del voto

Non esiste una spiegazione unica a fenomeni complessi, multi-fattoriali. Provo a spiegarmi.

Il Cile ha vissuto più di 30 anni di una “democrazia” limitata e sotto tutela, di montagne russe di un’economia che ha ridotto la povertà, ma non ha certo attaccato a fondo le disuguaglianze, di promesse non mantenute verso il ceto medio indebitato e “aspirazionale” di raggiungere il paradiso dell’inclusione sociale, di sfacciati abusi imprenditoriali: sono alcuni degli elementi che fanno in modo che, a partire dall’ottobre 2019, ceto medio e parte delle classi subalterne siano protagonisti della “rivolta sociale”. Nel “paradiso del consumo”, è anche una rivolta di consumatori indebitati per garantire la sopravvivenza quotidiana, l’educazione ai figli, la salute, per pagarsi le pensioni….

Quei protagonisti della rivolta sociale, che non hanno trovato risposte nel sistema politico, davano conto di una nuova struttura socio-economica, lontana da quella del XX° secolo. La vecchia classe operaia industriale è fortemente ridotta, così come lo stesso impiego pubblico dato che, grazie alla costituzione pinochetista, nella culla del neo-liberismo lo Stato è sussidiario al mercato. In Cile solo il 17% dei lavoratori è sindacalizzato, ed il settore privato si caratterizza per salari da fame, alti tassi di instabilità e di precariato. A ciò va aggiunto l’individualismo esasperato, la dura condizione femminile, le famiglie monoparentali, i professionisti di prima generazione, e un’articolazione molto diversa dal tradizionale ceto medio. Di fronte a questa frammentata mappa, la politica è incapace di comprendere e proporre, appare sorda e distante.

In un Paese con una brutale concentrazione mediatica, senza alcun contrappeso reale, è stato decisivo l’incessante bombardamento mediatico sulla “delinquenza dilagante”, con nuovi fenomeni criminali più violenti e crudeli, ed un record di omicidi nel nord del Cile. Il discorso della campagna elettorale è stato solo uno, semplice, uniforme, ripetuto ed efficace: mano dura contro la criminalità. La percezione di insicurezza è stato un fattore chiave del risultato. Inutile sottolineare come l’artiglieria mediatica sulla “delinquenza dilagante” vada sempre sottobraccio all’”invasione dei migranti”. Il Cile è stato per molto tempo un Paese di emigrazione, e solo da qualche anno vive il fenomeno massiccio dell’immigrazione, a cui non è assolutamente preparato. La conseguenza è una seria crisi in materia migratoria ed una crescente “guerra tra poveri”.

La crescita e la vittoria del Partito Repubblicano, acerrimo nemico del sistema democratico, si deve soprattutto al fatto che, creando un clima di terrore su criminalità e immigrazione, è riuscito a mobilitare la minoranza più conservatrice che si era tenuta distante dalle urne (quando il voto non era obbligatorio) e naturalmente dalla partecipazione politica. È doloroso constatare che il vincolo con la dittatura, la violazione dei diritti umani e la corruzione infinita di quel periodo non sono stati sufficienti a frenare il consenso al fascismo.

Il nuovo processo costituzionale (deciso dopo il risultato del plebiscito del 4 settembre e chiuso nei “palazzi”) non solo è stato percepito da molti come una limitazione della sovranità popolare, ma ha anche aperto frettolosamente un nuovo processo quando la sconfitta del plebiscito non era ancora stata assimilata, né era stato superato il forte riflusso sociale e politico che aveva prodotto.

Soprattutto nel voto nullo e nelle schede bianche, si tratta anche di un voto castigo dell’operato del governo. Le forze politiche che ne fanno parte  affrontano con timidezza il dialogo con i movimenti e la necessità di costruzione di forza sociale dal basso. Più che trasformare davvero, la scorciatoia appare quella di applicare ancora una volta le vecchie ricette tecnocratiche senza fare i conti con il nuovo panorama sociale.

Manca una connessione (sia sentimentale, che reale) con la società, e gli inquilini del palazzo de “La Moneda” sono percepiti come “amministratori” dell’esistente e delle tradizionali forme della politica. Soprattutto i giovani sentono l’incapacità di rinnovare la politica e del cambiamento profondo per cui si erano mobilitati ed avevano votato.

Nel 2021, al ballottaggio delle elezioni presidenziali, sia Gabriel Boric che José Antonio Kast (presidente del Partito Repubblicano, figlio di un nazista tedesco e ammiratore di Pinochet) apparivano come due figure al di fuori della politica “tradizionale” e con posizioni fortemente critiche del “sistema”. Oggi, l’immagine del Presidente Boric si è trasformata in quella di un “amministratore”, senza maggioranza parlamentare. Viceversa, Kast ha mantenuto un profilo di rifiuto “anti” che finora ha pagato, anche senza alleanze con il resto delle destre.

Il risultato ha quindi una logica. In un contesto di crisi economica, di post pandemia, in cui l’inflazione è la più alta degli ultimi 30 anni ed erode i salari, mentre il 70% del Paese è indebitato e fa fatica ad arrivare a fine mese, la maggioranza della popolazione era stanca di questo dibattito sulla nuova Costituzione, percepito come distante dai problemi quotidiani. Si è votato più contro, che a favore di…

E ora ?

La sinistra ed i movimenti popolari cileni hanno ottenuto uno dei peggiori risultati della loro storia politica e, se non cambiano tattica e strategia, sono condannati ad essere spettatori delle deliberazioni del Consiglio Costituzionale e ad accettare, inoltre, una Costituzione che si discosterebbe poco da quella dittatoriale del 1980 e dal suo “maquillage” durante il governo di Ricardo Lagos.

La grande mobilitazione e la vittoria del campo popolare in Cile è stato un grande risultato iniziale, nonostante il vuoto organizzativo della rivolta e l’incapacità dei frammentati movimenti di unificare un blocco sociale maggioritario, al di là delle mobilitazioni di piazza. Ma il governo del Presidente Boric è oggi senza sostegno elettorale e parlamentare. La sola rivolta sociale, senza un progetto di società e di Paese in grado di essere maggioranza e senza la capacità di formare nuovi dirigenti impegnati sul terreno di cambiamenti profondi, è destinata a fallire.   Per esercitare egemonia, serve un progetto sociale e politico per articolare una maggioranza che affronti il fascismo.

L’agonia di partiti politici storici (Democrazia Cristiana, Partito Radicale, Partito per la Democrazia) è l’espressione della fine di un ciclo nella storia della democrazia cilena. Un ciclo caratterizzato dalla neo-modernità del sistema politico e dalla debolezza del sistema economico, con un enorme indebitamento dei privati ed uno sviluppo frustrato.

Dietro il “pendolo elettorale”, rimane il voto destituente e la capacità del “nuovo” e dell’ “anti” di mobilitarlo elettoralmente. Questa capacità non ha costruito (per ora) potere politico, ma si è dedicata ad attaccarlo, diluirlo e frammentarlo, indebolendo la capacità di governare e alimentando il malcontento dell’ “anti-politica”.

Piaccia o meno, oggi il processo costituzionale è in mano al fascismo e alla destra tradizionale ed il nuovo testo dovrà essere ratificato o meno a dicembre. È molto probabile che Kast moderi i suoi toni, assuma atteggiamenti da statista e punti alla presidenza nel 2024, sapendo che i diritti sociali non sono certo una sua priorità, ed è il mercato che la fa da padrone.

Il futuro non appare roseo. É aperta la battaglia contro i padroni del vapore che non vogliono perdere un millimetro dei loro privilegi, contro il fascismo in uniforme e contro i seguaci di Escrivá de Balaguer. Contro chi vuole negare i diritti sanciti per le donne, chi non vuole salari minimi dignitosi, chi siede nei consigli d’amministrazione della sanità privata (ISAPRES), dei fondi pensione privati (AFP) e del sistema educativo, negando il pane e l’acqua alla sanità e all’istruzione pubbliche.

Se da un lato il governo deve ritrovare unità interna ed una migliore capacità di comunicazione, dall’altro è urgente attivare un dialogo con i movimenti e la base sociale che finora ha appoggiato il governo, soprattutto uscendo dalla “zona di confort” e dalla cerchia dei già convinti.

È sul terreno delle idee che occorre battersi, ma la sinistra annaspa ed il governo ha scelto di non scontrarsi con la destra, ancora prigioniero di un’agenda dettata dall’opposizione.

Oggi, le sinistre politiche e i movimenti politici e sociali si interrogano sulla possibilità di comporre un’ampia alleanza sociale e politica, di classi e settori frammentati, per estendere la democrazia e bloccare il fascismo. In un processo che richiede, sia dal governo che dalla piazza, sia dall’alto che dal basso, molta più audacia e creatività di quella avuta fino ad oggi.

Una risposta a “Cile: cronaca di una sconfitta annunciata”

  1. Mi piace e sono in accordo con quanto scrivi. Mi viene in mente un libro di non ricordo quale autrice di AL che fonda il partito delle donne e quando arriva/no al “potere” dopo iniziali errori applicano la formula “per pulire bene una casa per prima cosa si mandano tutti gli occupanti fuori, poi si sposta tutto fuori e poi si inizia a pulire con finestre e porte aperte”. Ecco forse dobbiamo imparare a tirare tutto fuori ….

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