Colombia, la pace appesa a un filo

Ripreso il dialogo fra Pastrana e le Farc-Ep

di Marco Consolo – Liberazione 10-2-2001

 

L’incontro fra il presidente Pastrana e Manuel Marulanda

 

 

Riprendono in Colombia tra mille difficoltà le trattative di pace tra il presidente Pastrana e le Farc-Ep (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia-Esercito del popolo). A novembre le Farc hanno congelato i dialoghi esigendo dallo Stato una risposta ai massacri quotidiani degli squadroni della morte.

 

Giovedì scorso Pastrana si è recato a “Villa Nueva Colombia”, nel sud del Paese dove dal gennaio del 1999 si svolgono i dialoghi tra la più antica ed estesa guerriglia marxista del continente ed il governo. Per la terza volta dal luglio 1998, a riceverlo è il comandante guerrigliero Manuel Marulanda, il leggendario “Tirofijo” che la scorsa settimana con una lettera aperta a Pastrana, aveva “scongelato” la situazione di stallo.

Il governo, nel frattempo, ha raggiunto un accordo per il dialogo con l’altro gruppo guerrigliero, l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN), in una strategia che cerca di contrapporre tra loro i “buoni e cattivi”.

Con le Farc i colloqui dovevano durare solo un giorno, ma Pastrana ha deciso di rimanere altre 24 ore. Ieri a mezzanotte, scadeva il termine di vigenza della zona smilitarizzata dove si sono svolte anche le “udienze pubbliche” con oltre trentamila persone, anche se è probabile che il termine sia prorogato.

 

Nessun commento sui colloqui, ma molti sono i punti critici. Innanzitutto lo smantellamento delle formazioni paramilitari, le famigerate “Autodifese di Colombia” (AUC) che, con l’appoggio delle Forze Armate, a gennaio hanno assassinato più di 200 persone. I paramilitari fanno il lavoro sporco, la “pulizia sociale” nelle zone di interesse strategico, necessaria allo sviluppo dei macro-progetti di accumulazione capitalista sponsorizzati dal Fmi e dalla Banca Mondiale. C’è poi l’ipotesi di scambio dei prigionieri a partire da quelli malati.

 

Plan Colombia e l’area di libero scambio

 

Ma il principale nodo di scontro è il “Plan Colombia”, il cosiddetto piano di “lotta al narco-traffico” finanziato dagli Stati Uniti con più di 1300 milioni di dollari, per lo più aiuti militari. Un boccone prelibato servito su un piatto d’argento al neo-presidente Bush, fortemente voluto da Clinton ed approvato dal congresso statunitense lo scorso agosto che sta destabilizzando l’intero continente e preoccupa fortemente  i governi dell’area. Ma anche nel recente “Forum Sociale Mondiale” di Porto Alegre e nel controvertice di Davos, il “Plan Colombia” è stato duramente contestato.

 

Nonostante la copertura ideologica della “lotta al narco-traffico”, si tratta di un piano di riordino economico, politico e geo-strategico per l’intero emisfero.

 

Il primo aspetto riguarda la realizzazione dell’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe), dal Canada fino alla Patagonia argentina. Un progetto ideato da Bush padre nel 1990, con l’obiettivo strategico della creazione del più grande mercato mondiale, con un potenziale di 800 milioni di consumatori, sotto l’egida dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

 

Dopo la riunione di Miami (1994), quella del Comitato per i Negoziati Commerciali e quella dei Gruppi di Negoziato (1998), a febbraio si definiranno i 9 punti ancora in discussione: accesso ai mercati, investimenti, servizi, registrazione dei contratti pubblici,  risoluzione di controversie commerciali, agricoltura, diritti di proprietà intellettuale, sovvenzioni anti-dumping, diritti di compensazione, politiche della concorrenza.

 

La stessa controversa agenda di Seattle. Ed il prossimo 6-7 aprile i ministri del Commercio estero dell’America Latina si riuniranno a Buenos Aires per preparare il vertice dei capi di Stato e di governo delle Americhe (17-22 Aprile in Canada), accompagnati da mobilitazioni di massa e controvertici ratificati anche dal documento finale dei movimenti sociali riuniti a Porto Alegre.

 

La recente offensiva diplomatica del governo Pastrana, in vista della riunione di febbraio dei “paesi donatori”, cerca di attirare investimenti stranieri. Lo schema è semplice: i paramilitari garantiscono la “pulizia” del territorio, la “parte sociale” del “Plan” cerca di ammortizzare l’espulsione dalle zone ricche del paese ed attirare gli investitori nei “megaprogetti” di interesse strategico come l’estrazione petrolifera, la privatizzazione dei porti, dell’energia, delle telecomunicazioni, della ricchissima biodiversità amazzonica, delle risorse idriche. Il Plan serve a garantire “pacificazione  sociale”, annientando l’opposizione sociale ed armata.

 

E’ la stessa strategia fondomonetarista che ha determinato la “dollarizzazione” dell’economia del Salvador e dell’Ecuador dove c’è stato il “levantamiento” degli indigeni dell’anno passato e di questi ultimi giorni (il rifiuto del Plan Colombia era tra le richieste della Conaie), le rivolte  contadine ed indigene in Bolivia contro la privatizzazione dell’acqua, la crescita del malcontento popolare in Brasile, la cacciata di Fujimori in Perù. L’esperienza originale del Venezuela di Chavez (principale esportatore di petrolio verso gli Usa) e la sua iniziativa in sede Opec preoccupano fortemente il Dipartimento di Stato.

 

La strategia militare

 

Oltre ad un rafforzamento della presenza militare degli Stati Uniti in tutta la regione (Ecuador, Perù, Panama, Puerto Rico, Aruba e naturalmente in Colombia), alla destabilizzazione delle frontiere, in particolare quella venezuelana, il Plan si propone obiettivi strategici attraverso lo sviluppo della “guerra di bassa intensità” già sperimentata con successo nei conflitti centroamericani degli anni 80 (Nicaragua, Salvador, Guatemala). Varianti significative si sono avute nel caso dell’invasione di Grenada, Panama, e negli anni 90 ad Haiti dove l’obiettivo dichiarato era abbattere i governi esistenti.

 

La versione colombiana del conflitto di bassa intensità parte da una doppia concezione.

 

Da una parte “agire per interposta persona”, evitando il coinvolgimento diretto  degli Stati Uniti e dello Stato colombiano. La “guerra legittima antinarcotici”, è condotta dalle Forze armate e dalla polizia colombiana, addestrati dall’esercito statunitense e da contrattisti delle “società di sicurezza” (prima israeliani, oggi nordamericani) che spuntano come funghi.

 

Dall’altra la “guerra sporca” è fatta dai paramilitari (in rapporto carnale con la “narco-oligarchia” latifondista), la cui esistenza è giustificata ideologicamente come “risposta sociale” alla guerriglia, per legittimarli come “attori” del conflitto, con diritto a sedere al tavolo dei negoziati.

Il capo delle AUC, Carlos Castaño, concede interviste alla radio ed alla Tv, riceve parlamentari colombiani, parla al telefono con rappresentanti del governo statunitense, e mentre tutti sanno dove si trova, l’esercito “non riesce” a localizzarlo.

 

In cerca di legittimità

 

Il G-8, riunito ad Okinawa, si è occupato della Colombia. Nella dichiarazione finale si può leggere che il club dei ricchi “approva pienamente i programmi e le iniziative del governo colombiano che tendono a stabilire le basi per una pace duratura ed a porre fine alla coltivazione ed al traffico di prodotti illeciti nel paese. (….). Riafferma l’impegno a combattere il riciclaggio di denaro ed il commercio illecito di armi e prodotti chimici che servono a produrre le droghe illecite, con l’obiettivo di eliminare le fonti di finanziamento dei gruppi armati clandestini nel paese”.

 

E tutti gli esponenti dell’amministrazione Clinton, da Madeleine Albright a Peter Romero, passando per lo “zar antidroga” gen. Barry Mc Caffrey ed il capo del Comando Sud degli Usa, gen. Charles Wilheim hanno viaggiato in lungo e largo per il continente e in Europa per legittimare l’opzione del Plan. Ma solo qualche giorno fa, il Parlamento europeo ha approvato una importante risoluzione in cui è netta la condanna al Plan Colombia nella sua interezza. Resta da vedere cosa faranno i governi della Ue.