Ecuador: vince la speranza (*)

di Marco Consolo

 

Il ballottaggio elettorale in Ecuador dello scorso 2 aprile, ha segnato la vittoria del binomio progressista Lenin Moreno – Jorge Glas (51,15 %) di Alianza País, sul rappresentante della destra cavernicola del banchiere Guillermo Lasso (48,85 %) della lista Creo – Suma, con uno stretto margine del 2,3 %.

Un risultato importante, visto lo scenario regionale marcato dalla battuta d’arresto del progressismo e dall’avanzata della restaurazione conservatrice e neo-liberale: la crescita della destra venezuelana e la violenta destabilizzazione in atto, la vittoria del NO nel referendum per la pace in Colombia, e nella consultazione per permettere la rielezione del Presidente Evo Morales in Bolivia, la stretta vittoria di Mauricio Macri in Argentina ed il golpe parlamentare-giudiziario-mediatico in Brasile.

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Ripetendo un copione sotto dettatura, consolidato nel continente, la destra ecuadoriana ha accusato di brogli il Consiglio Nazionale Elettorale (CNE), sulla base di un proprio “sistema elettorale” che annunciava la vittoria di Lasso, come unico risultato possibile.  Ad urne appena chiuse si è messa in scena la vittoria del banchiere Lasso, attribuitagli dai media privati (Ecuavisa, Teleamazonas), sulla base di exit-polls emessi da una compiacente impresa privata (Cedatos che lavora per il Banco di Guayaquil), per delegittimare le istituzioni pubbliche e sostituirle con regole del gioco stabilite dai poteri forti.

La seconda tappa dello show mediatico, è stato l’appello alle proteste di piazza per “incendiare Quito”, contro la “dittatura” della Revolución Ciudadana, per “difendere il voto dai brogli” e cacciare i “corrotti di Alianza País”, facendo appello alle Forze Armate a ribellarsi per “recuperare la democrazia”. Una richiesta ripetuta dai grandi mass-media e dalle “reti sociali”, nonostante la destra non abbia prodotto uno straccio di prova dei “brogli”. Ma il riconoscimento internazionale della vittoria del binomio Moreno-Glass, anche da parte di esponenti della destra regionale, ha mostrato l’isolamento del candidato banchiere, che non accetta la volontà popolare e non si rassegna alla sconfitta.

Al di là delle difficoltà economiche e del naturale logorio di 10 anni di governo, nonchè dell’opposizione tenace da parte dei poteri tradizionali spiazzati dal cambio di governo, c’era da affrontare una vulgata di moda: quella della “fine del ciclo progressista” in America Latina. Una vulgata paralizzante, ripetuta fino alla nausea dalla destra continentale, ma che ha contagiato anche alcuni simpatizzanti del processo. Questi ultimi hanno posto l’accento sulle contraddizioni del “modello estrattivista”, sul distanziamento di settori dei popoli originari, sulla firma del Trattato di Libero Commercio con la UE.

Insieme al primo turno elettorale del febbraio 2017, gli ecuadoriani si erano espressi a grande maggioranza (55,12 %) a favore della proibizione di detenere beni o capitali di qualsiasi tipo nei cosiddetti “paradisi fiscali” per poter esercitare un incarico pubblico. Questa la domanda:

¿Está usted de acuerdo en que, para desempeñar una dignidad de elección popular o para ser servidor público, se establezca como prohibición tener bienes o capitales, de cualquier naturaleza, en paraísos fiscales?

In base alla vittoria del SI, i funzionari pubblici o politici avranno un anno per ritirare i propri depositi (eventuali) dai paradisi fiscali.

Lo scorso 13 marzo Correa aveva inviato un progetto di legge al parlamento per la sua approvazione. Il governo dell’Ecuador si è fatto promotore di una legge interna e di una proposta verso la comunità internazionale, definita “Patto Etico”.

Partendo da una valutazione dei paradisi fiscali (che si caratterizzano per proventi illeciti, corruzione, riciclaggio di denaro e evasione fiscale), la proposta si incentra invece sulle “buone pratiche” in materia di educazione civica, bancaria e tributaria.

Nelle dichiarazioni di Guillame Long[1], ministro degli Esteri e della Mobilità Umana, la posizione dell’Ecuador contro i paradisi fiscali: “i flussi illeciti di capitali costituiscono un flagello che genera danni gravissimi alle nostre società. Elementi come il segreto bancario o la permissività di alcuni Paesi o organismi internazionali rispetto alla libera circolazione del denaro e degli attivi, senza che ne venga verificata l’origine, produce gravi distorsioni nei flussi globali di capitali”.

Infine, “i paradisi fiscali sono inoltre perversi incentivi per l’evasione e l’elusione fiscale, con un conseguente danno per gli Stati e le cittadinanze”, con un “particolare danno per i Paesi cosiddetti in via di sviluppo, che tanto necessitano di risorse”.

Il tema del Patto Etico è stato presentato alle Nazioni Unite, insieme alla creazione di uno strumento vincolante per le violazioni ai diritti umani a carico delle multinazionali. La proposta si riassume nella creazione di un’istituzione democratica e vincolante per la giustizia fiscale che ponga fine alla vergogna del XXI secolo: i paradisi fiscali.

Luci ed ombre del risultato elettorale

Una lettura critica del risultato segnala che Alianza Pais ha vinto nei collegi più popolosi, (meno Pichincha): ma ha perso in territori tradizionalmente affini e dove si concentra il movimento “indigeno” ed i movimenti sociali che sono stati decisivi negli anni della resistenza al neo-liberalismo.

Insieme ad altri segnali di logoramento e inerzia, questo obbliga a ripensare il rapporto tra il governo ed i movimenti sociali, tra il governo e i territori, tra “alto e basso”. Infatti, in mancanza di un lavoro politico (e come già accaduto in altri Paesi), questi settori non si inclinano in modo naturale a sinistra, anche se sono i più esposti alla minaccia reale del peggioramento delle loro condizioni di vita in caso di ritorno dei governi neo-liberisti. Paradossalmente, il risultato è stato simile anche tra i migranti in Italia, dove ha vinto il banchiere Lasso con circa il 57%.

Gli ultimi 10 anni sono stati caratterizzati da luci ed ombre. Il governo post-neoliberista di Correa, in politica estera ha chiuso la base militare statunitense di Manta, si è schierato per l’integrazione regionale, è entrato nell’ALBA, ha diversificato i rapporti politici e commerciali. All’interno, con un’economia “dollarizzata”, ha fatto passi da gigante in educazione, sanità, ricostruzione post-terremoto, opere pubbliche. Ma in 10 anni è riuscito a riequilibrare solo parzialmente la profonda diseguaglianza sociale.

Non c’è dubbio che ci sia ancora molto da fare nel cammino verso la giustizia sociale. Un percorso che non può essere semplicemente “dall’alto verso il basso”, come è stato in gran parte fino adesso. È questa la sfida principale degli anni a venire.

Proibito dimenticare il passato

Facciamo un passo indietro di qualche anno. Le politiche neo-liberiste, iniziate al principio degli anni ’90, avevano prodotto il cosiddetto “salvataggio” bancario nel marzo 1999, la bancarotta del sistema finanziario e la peggior crisi economica della storia, culminata nella perdita della moneta nazionale e nella “dollarizzazione” nel 2000.

L’instabilità politica dei governi della destra aveva provocato la caduta di 3 presidenti in meno di 10 anni (Abdalá Bucaram, il 5 febbraio 1997, Jamil Mahuad, il 21 gennaio 2000, e Lucio Gutiérrez, il 20 aprile 2005), con rivolte popolari. In questo scenario, Rafael Correa, economista, accademico e dirigente del nascente Movimiento Alianza País, si era presentato alle elezioni presidenziali e nel novembre 2006 sconfiggendo (con il 56,67%) l’imprenditore Álvaro Noboa, paladino dell’impresa privata, del non intervento statale e della subordinazione agli Stati Uniti con la firma del Trattato di Libero Commercio (TLC).

Viceversa Correa sosteneva una ripresa del ruolo dello Stato, il no al Trattato di Libero Commercio (TLC) con gli Stati Uniti, la creazione di occupazione mediante le opere pubbliche, un aumento dei sussidi verso le fasce più svantaggiate, l’erogazione di crediti per la produzione e la casa con tassi preferenziali e a lungo termine.

Nel 2007 viene convocata una Assemblea Costituente che redige la nuova costituzione sottoposta a consulta popolare nel settembre 2008.

Correa eredita un Paese in rovina, e indebitato fino al collo.  In questi anni, la povertà è diminuita  dal 36.7% al 23.3%, mentre la povertà estrema è scesa di più di otto punti nello stesso periodo.

Sovranità nazionale e il tentativo di golpe

In politica estera Correa si schiera da subito a difesa della sovranità nazionale e per l’integrazione regionale. A proposito di sovranità, tra gli atti più eclatanti, c’è la decisione del 2008 di non rinnovare il convegno in base al quale dal 1999 gli Stati Uniti utilizzavano gratuitamente (e con totale immunità) la base navale ed aerea di Manta, ufficialmente per “intercettare i voli del narcotraffico”.

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La base formava parte della struttura militare strategica di relazione tra diversi Centri Operativi di Avanzata (FOL/CSL), insieme a Comalapa (El Salvador); Regina Beatrice (Aruba); e Hato Rey (Curazao) garantendo uno spettro di controllo ampio al Comando Sud, ubicato in Florida. Tra i quattro siti (FOL/CSL) menzionati, il maggiore investimento (più di 80 milioni di dollari) fu realizzato a Manta, trasformando l’aeroporto della base in uno dei più sofisticati in America Latina, per missioni di spionaggio, intelligence e riconoscimento di tutta la regione, nonché la propria presenza militare in Ecuador e Colombia [2].

Una decisione sovrana, presa in base al mandato costituzionale approvato nella consulta popolare del 28 settembre 2008. La Charta Magna infatti, proibisce “basi militari straniere in territorio ecuadoriano“.

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Sul versante della sovranità economica, Correa da economista di scuola statunitense, conosce bene i meccanismi finanziari e quelli del debito estero. Diventa subito scomodo per Banca Mondiale e FMI, i cui solerti funzionari sono dichiarati “persona non grata” in Ecuador.   Decide di realizzare un audit sul debito (avvalendosi di uno staff internazionale) che ne mette in luce l’illegittimità, e le irregolarità realizzate da istituti finanziari, sia nord-americani, che europei.

Parallelamente apre la battaglia sul fronte del CIADI (ICSID in inglese), il “tribunale di arbitraggio della Banca Mondiale” nelle controversie tra Stati e multinazionali. Un tribunale le cui sentenze, spesso e volentieri, rimpinguano le tasche delle imprese che fanno causa agli Stati quando questi ultimi provano a difendere la loro sovranità e ledono, quindi, gli interessi di lor signori. Il suo rappresentante, Eduardo Somensatto, nel 2007, viene espulso dal Paese.

Il 2 luglio del 2009, l’Ecuador di Correa “denuncia e quindi dichiara terminato” l’accordo col CIADI, di cui faceva parte dal 1986. Tra i motivi addotti, l’incompatibilità dell’Accordo con la nuova Costituzione, che nell’Art. 422 recita infatti: “Non si potranno celebrare trattati o strumenti internazionali nei quali lo Stato Ecuadoriano ceda giurisdizione sovrana a istanza di un arbitraggio internazionale, in controversie contrattuali o di indole commerciale, tra lo Stato e persone naturali o giuridiche private”.

Ma nonostante la sua uscita dal CIADI nel 2009, il governo è costretto a fare fronte agli strascichi delle cause ancora aperte per controversie su contratti precedenti. E nel febbraio di quest’anno, si è ancora discusso di un laudo arbitrale con la Burlington, una impresa petrolifera a stelle a strisce.

Rispetto alla politica monetaria, la dollarizzazione del Paese, restringe fortemente gli spazi di una politica economica sovrana. È un’altra eredità di quella lunga notte neo-liberale in cui i governi firmavano sotto dettatura trattati e accordi di protezione di investimenti esteri. Un’eredità di cui non è semplice disfarsi e che spesso viene sottovalutata.

Basta e avanza per inimicarsi Washington. Ma Correa è già nella mira dell’impero del Nord, anche per i discussi rapporti con la Cina e con l’Iran, “paesi canaglia” per la Casa Bianca. La decisione di chiudere la base di Manta, insieme alla politica estera e finanziaria, gli costerà, tra l’altro, un tentativo di golpe il 30 settembre del 2010, con sequestro e tentativo di omicidio incluso.

Le sfide del prossimo futuro

In questi anni, i rapporti tra il governo Correa ed una parte del movimento “indigeno” non sono certo stati idilliaci e gli scontri non sono mancati.  Nelle ultime elezioni, una parte della Confederazione delle Nazioni Indigene dell’Ecuador (Conaie) aveva fatto campagna elettorale per il candidato banchiere, Guillermo Lasso.

Moreno ha invitato al dialogo la Conaie. “Non faremo niente senza di voi, stendiamo la mano alla Conaie”, ha affermato.

C’ è da ricucire con i movimenti sociali, in particolare con quello contadino, dei popoli originari e afro-discendenti.

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In una recente riunione con esponenti dei movimenti, il nuovo Presidente si è impegnato a rispettare il carattere multiculturale del Paese e a dare vita a un dialogo permanente con i popoli indigeni, il movimento contadino e quello degli afro-discendenti.  “Non voglio essere il Presidente di una sola parte degli Ecuadoriani, sarò un Presidente che include… è il momento di darci di nuovo la mano per sradicare povertà e razzismo” ha detto Moreno. Tra le promesse alle comunità “indigene” c’è quella di migliorare il sistema educativo bilingue, mentre nei confronti dei contadini c’è l’impegno per la concessione di crediti preferenziali, e formazione tecnica per aumentare la produttività, nonché l’appoggio per l’esportazione di alcuni prodotti agricoli.

Più in generale, si tratta di strutturare una agenda di consenso a favore dei popoli originari ed un programma di misure e azioni rispetto alla casa, salute, educazione, lavoro e l’annoso problema dello sfruttamento delle risorse naturali che si trovano nei loro territori, a partire dal caso Yasunì, che aveva sollevato molte polemiche nel passato.

C’è da star certi che non faranno sconti al nuovo governo.

Prima sfida: le difficoltà economiche

Moreno riceve un Paese politicamente ed economicamente stabile, dove si sono realizzate politiche sociali, ed una buona gestione economica, che permette di accedere a crediti internazionali. Il PIL è raddoppiato nella “decada ganada”, il Paese ha il miglior tasso di crescita della media regionale, conta su alti indici di sviluppo umano, sulla riduzione della povertà per circa due milioni di persone, e sulla sovranità energetica. C’è una strada percorsa e un cammino tracciato e ci si attende dal nuovo governo che sappia migliorare ulteriormente le condizioni sociali ed economiche del Paese.

Ma per dare seguito agli impegni presi in campo sociale in quanto a politiche pubbliche, dovrà vincere la sfida delle difficoltà economiche, in un contesto economico mondiale difficile e non favorevole all’Ecuador. La caduta dei prezzi del petrolio, principale prodotto di esportazione, probabilmente obbligherà il governo alla prudenza rispetto agli investimenti pubblici.

Inoltre, trattandosi di un Paese dollarizzato, l’apprezzamento del dollaro fa sì che i suoi prodotti siano meno competitivi, mentre il prezzo delle commodities come il petrolio (da cui dipende fortemente l’entrata di divisa) è minore di periodi anteriori.

Seconda sfida : la politica estera

Rispetto alla politica estera, non ci dovrebbero essere discontinuità significative col passato governo Correa, a partire dalla lotta contro i paradisi fiscali nel G77. Così come l’integrazione regionale a partire dai meccanismi e dalla struttura della Unión de Naciones Suramericanas  (Unasur), la cui sede si trova nel Paese. Forse assisteremo ad un maggiore avvicinamento in materia commerciale agli Stati Uniti ed un abbassamento dei toni rispetto al passato.

Prima di lasciare il Palazzo di Carondelet, Rafael Correa ha chiuso ben 16 Trattati Bilaterali di Investimento (TBI), che facevano parte di un totale di 30 accordi firmati dall’Ecuador tra il 1968 ed il 2001. In particolare con la Gran Bretagna (maggio 1994), Germania (marzo 1996), Cina (marzo 1994), Svizzera (maggio 1968), Cile (ottobre 1993), Svezia (maggio 2001), Francia (settembre 1994), Brasile (giugno 1999), Venezuela (novembre 1993), Argentina (febbraio 1994), Canada (aprile 1996), Stai Uniti (agosto 1993), Spagna (giugno 1996), Perù (aprile 1999), Bolivia (maggio 1995) e, dulcis in fundo, con l’Italia (ottobre 2001).

Una decisione presa anche in base alle conclusioni della “Commissione per l’Auditing Integrale Cittadino dei Trattati di Protezione Reciproca degli Investimenti e del Sistema di Arbitraggio in materia di Investimenti” (Caitisa). La commissione aveva consegnato al presidente Correa la relazione finale sui TBI sostenendo che questi “non sono stati determinanti nell’attrarre investimenti stranieri nel Paese”. Il contrario della vulgata dominante. Nonostante l’Ecuador sia uno dei Paesi della regione con più TBI, secondo il rapporto, riceve solamente lo 0,79 % degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) che arrivano in America Latina e nei Caraibi.

Terza sfida: il dialogo con l’opposizione

Con l’escalation dell’attacco al Venezuela, il dialogo sembra un tema ineludibile. In particolare probabilmente Moreno cercherà di riavvicinarsi a quei settori che avevano appoggiato il processo e che poi se ne sono allontanati, con critiche dure.

Per quanto riguarda l’opposizione, il pragmatismo di Moreno fa prevedere un tentativo di dialogo con i settori più conservatori e reazionari dell’opposizione. Il governo dovrà neutralizzare le frange più estremiste che hanno gettato benzina sul fuoco durante il recente processo elettorale, cercando lo scontro.

Non bisogna dimenticare che Moreno ha vinto con uno stretto margine, e la destra locale segue il “copione venezuelano” cercando di mettere in minoranza o disfarsi del governo Moreno. Non sarà certo una strada in discesa.

La regione ed il mondo attendono di vedere le prime mosse del governo di Lenin Moreno.

 

(*) NB: Una versione ridotta di questo articolo è uscito sulla rivista SINISTRA SINDACALE 8/2017

 

[1] Discorso di Guillame Long: https://www.youtube.com/watch?v=I0I5gI8U3I4

[2] http://www.cubadebate.cu/noticias/2009/07/17/iniciada-retirada-de-estados-unidos-base-de-manta-ecuador/