Serrata contro Chavez

di Marco Consolo – Liberazione 12-4-2002


A Caracas si sono svolte ieri manifestazioni di piazza contro e pro Chavez

 

 

“Ringraziamo gli industriali che si sono assunti un immenso costo, tra cui quello dei salari dei lavoratori che non lavorano dato che le nostre imprese sono chiuse». Sono queste le parole di Pedro Carmona Estanga, presidente di Fedecamaras, la Confindustria venezuelana, in appoggio al cosiddetto sciopero generale che avrebbe dovuto paralizzare il paese.

 

Un connubio anomalo

 

Uno sciopero anomalo, unitario, ma tra padroni e la Ctv (Centrale dei lavoratori del Venezuela), il sindacato filo-padronale legato mani e piedi al vecchio regime bipartitico.

Uno sciopero a difesa dei dirigenti miliardari dell’impresa petrolifera nazionale (PdVSA), di cui lo Stato è l’unico azionista. Domenica scorsa, infatti, con un decreto firmato in diretta televisiva, il presidente Chavez, facendo uso delle sue attribuzioni, ha licenziato ben sette managers di Stato, accusati di «sabotare un’impresa di tutti i venezuelani» e di fare il gioco della reazione contro il processo rivoluzionario.

Quella energetica è un’industria strategica, nevralgica, per un paese in cui le esportazioni di petrolio rappresentano l’80% del totale ed il 50% delle entrate tributarie.

 

Lo sciopero sembra essere andato male: i trasporti, il sistema bancario, i servizi pubblici ed il piccolo commercio hanno funzionato. Ma i grandi centri commerciali e la McDonald’s hanno chiuso, nonostante la presenza dei lavoratori che in diversi casi hanno denunciato gli impresari al Ministero del lavoro per violazione dei loro diritti. La Coca Cola, la Ford e la General Motors hanno dichiarato la serrata ed giornali non sono usciti (ad eccezione di Ultimas Noticias).

Il presidente Chavez ha fatto appello alla popolazione a non accettare nessuna provocazione, ma la situazione è calda.

 

Destra all’attacco

 

Da mesi la destra sta organizzando la destabilizzazione interna con l’appoggio dei principali mezzi di comunicazione, schierati apertamente contro il processo di trasformazione.

Dei sette principali canali televisivi, Chavez può disporre solamente di uno (quello statale), e la stampa è completamente in mano alla destra. Uno dei gruppi editoriali più importanti, è legato a doppio filo con la mafia cubana anticastrista di Miami. La strategia di comunicazione mediatica punta a trasmettere un’immagine di  ingovernabilità, destabilizzazione, illegittimità del presidente, che, lo ricordiamo, è stato eletto con la schiacciante maggioranza dei voti. Un’immagine veicolata anche all’estero.

 

Lo scenario ricorda da vicino il Cile pregolpista: la borghesia dei quartieri alti scende in strada con i “cacerolazos” insieme alla destra fascista chiedendo alle forze armate di intervenire per «cacciare Chavez», il «dittatore comunista amico di Fidel», «contro la cubanizzazione del paese».

Come ci raccontava a Caracas lo stesso presidente Chavez, la Cia lavora attivamente, in particolare da quando è stata invitata ufficialmente a chiudere il suo ufficio principale che, grazie ai precedenti governi fantoccio, era installato nella caserma di Las Tunas, il quartier generale delle forze armate.

 

Deputati in vendita

 

Ma c’è un’importante differenza con lo scenario cileno: sul versante delle Forze Armate, nonostante le uscite pubbliche di alcuni esponenti, la stragrande maggioranza dei militari (ufficiali e truppa) appoggia Chavez. E’ questo il “dettaglio” che rende improbabile (almeno a tempi stretti) la possibilità di un colpo di Stato.

 

Ed è così che circola insistentemente la voce di una “campagna acquisti” di alcuni deputati per votare contro Chavez, il cui prezzo sarebbe attorno ai due milioni di dollari, in un paese in cui il salario minimo è attorno ai 200 dollari. E per tutta risposta Chavez ha annunciato aumenti salariali del 20% a partire dal prossimo primo maggio.

 

In queste ore le strade di Caracas, come già avvenuto il 10 dicembre scorso in occasione della serrata padronale, si riempiono dei pobladores che scendono dai “cerros” dei quartieri popolari a difesa di Chavez e del processo pacifico di  trasformazione. Come risposta alle mobilitazioni della destra, ieri mattina si è svolta un’imponente manifestazione conclusa al Palazzo presidenziale di Miraflores contro gli “squallidi”, epiteto con cui vengono identificati i settori reazionari.

 

Ma sarebbe impossibile capire gli avvenimenti in Venezuela senza tener conto del quadro internazionale dopo l’11 settembre.

L’immediata opposizione di Chavez al Plan Colombia ed alla ulteriore militarizzazione del conflitto colombiano (anche con il rifiuto di concedere lo spazio aereo venezuelano per attaccare le forze guerrigliere), e l’appoggio ad una soluzione politica negoziata del conflitto hanno provocato la collera di Washington. Ad oggi non ci sono stati atti di rappresaglia armata vista la necessità di mantenere una fonte importante e vicina nella somministrazione di petrolio (la prima del mondo occidentale per export verso gli Usa) in un momento in cui due dei principali paesi produttori (Iran e Iraq) sono indicati come i prossimi possibili obiettivi di attacchi militari statunitensi,  e la stessa Arabia Saudita vive una crescente instabilità politica e sociale.

Sul versante energetico, il ruolo strategico all’interno dell’Opec, (il cartello dei paesi produttori di petrolio), anche dopo la visita di Chavez in Iraq, Libia, Iran non è stato certo digerito dalla Casa Bianca ed oggi il Venezuela ha la presidenza dell’Opec.

 

Il fattore petrolio

 

Altrettanto sgradita ai petrolieri dell’amministrazione Bush la proposta di Chavez della costituzione  di “Petroamerica”, una impresa latinoamericana (a partire da Brasile e Venezuela).

Da segnalare la contrarietà del presidente venezuelano, espressa più volte pubblicamente, alla creazione dell’Alca (Area di libero commercio delle Americhe) fortemente voluta da Bush, ed il riavvicinamento del Venezuela al Mercosur (l’accordo subregionale a cui partecipano Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay), rafforzando il rapporto con il presidente brasiliano Fernando H. Cardoso.

 

Non ultima la condanna esplicita della guerra contro l’Afghanistan, che ha provocato il richiamo  temporaneo dell’ambasciatore statunitense a Caracas e le dure reazioni di Colin Powell e del direttore della Cia, George Tennet.

 

Infine le buone relazioni avviate con la Cuba di Fidel che hanno permesso, tra l’altro, di riaprire un canale commerciale sud-sud, concretizzando l’intercambio tra petrolio venezuelano e assistenza sanitaria cubana. C’è n’è abbastanza per tenere gli occhi aperti sull’esperienza della Rivoluzione bolivariana in Venezuela.